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E’ valida la transazione con cui un futuro erede rinunzia a far accertare la simulazione di una donazione?

Transazione ereditaria e divieto dei patti successori.

Con la sentenza n. 366/2024 la Corte di Cassazione è tornata ad affrontare una tematica molto delicata in materia successoria, e cioè i limiti di validità degli accordi relativi a delle successioni non ancora aperte.

L’art. 458 c.c. stabilisce che è nulla ogni convenzione con cui qualcuno dispone della propria successione oppure dispone o rinunzia a diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta.

Si tratta dei c.d. “patti successori” che sono vietati dal nostro ordinamento, sia per ragioni di ordine giuridico che morale.

L’unica fonte della delazione ereditaria è la legge o il testamento mentre non è possibile disporre della propria o altrui successione con lo strumento contrattuale.

L’accordo bilaterale concluso con un altro soggetto con cui si dispone della propria successione (c.d. “patti successori istitutivi”) urterebbe con il principio successorio fondamentale della libertà testamentaria, che consente ad ogni soggetto di revocare o modificare il proprio testamento fino all’ultimo istante della propria vita.

L’accordo con cui si dispone o si rinunzia ai diritti su una successione altrui non ancora aperta (c.d. “patti successori dispositivi” e “rinunziativi”) costituirebbe, poi, un “incentivo” del desiderio della morte altrui perchè si indurrebbe a speculare sui diritti che si conta di ricevere da una successione altrui quando il soggetto della cui successione si tratta è ancora in vita.

Non sempre è agevole individuare le fattispecie che rientrano nel divieto dei patti successori per cui la giurisprudenza in più occasioni è stata chiamata a delinearne i confini di ammissibilità.

Non costituiscono ipotesi di patti successori vietati le donazioni cum moriar e si praemoriar ovvero le donazioni fatte a termine iniziale della morte del donante oppure alla condizione sospensiva della sua premorienza.

In questo caso non ci si trova di fronte a patti successori in quanto il donatario acquista il diritto per effetto del contratto inter vivos e non per successione, per cui la morte del donante non costituisce la causa dell’attribuzione ma è solo l’evento che determina l’efficacia della donazione già conclusa.

Altra ipotesi che non rientra nel divieto dei patti successori è il contratto a favore del terzo con prestazioni da eseguirsi dopo la morte dello stipulante, espressamente previsto dall’art. 1412 c.c.

Si tratta di un atto inter vivos in cui la stipulazione a favore del terzo è immediata mentre è solo la sua materiale esecuzione che è differita dopo l’evento morte ma tale evento non rappresenta la causa dell’attribuzione che, invece, trova la sua fonte nel contratto.

Con la recente sentenza n. 366 del 5 gennaio 2024 la Cassazione ha analizzato il caso della transazione tra una madre e due figli relativa ad un giudizio tra essi pendente avente ad oggetto la successione paterna.

Il giudizio si era concluso con due atti di conciliazione: il primo, con cui sono stati attribuiti degli immobili alla figlia la quale si era impegnata a non ingerirsi nella divisione del restante patrimonio paterno tra la madre ed il figlio maschio, il secondo, avente ad oggetto l’accordo transattivo di divisione tra la madre ed il figlio con cui a quest’ultimo è stata attribuita la nuda proprietà dei beni ed alla madre l’usufrutto.

Deceduta la madre, la figlia ha agito in giudizio chiedendo che fosse accertata la natura simulata dell’atto transattivo tra la madre ed il figlio, sostenendo che questo rappresentasse in realtà una donazione della madre in favore del figlio lesiva della legittima della figlia.

La Cassazione ha ritenuto che la figlia con il primo atto conciliativo si è esclusivamente impegnata a non ingerirsi nella restante divisione del patrimonio paterno tra la madre e l’altro figlio e, quindi, aveva rinunziato ad avanzare pretese sull’eredità paterna, ma ciò non implica anche la sua rinunzia a far valere la simulazione della donazione tra la madre ed il figlio maschio e la conseguente lesione della legittima della figlia sulla successione materna.

Infatti, la rinunzia contenuta nell’atto conciliativo non poteva riguardare i diritti relativi alla successione della madre (anche se in questa erano ricompresi i medesimi beni da quest’ultima ricevuti per successione dal coniuge) in quanto una tale disposizione è nulla ex art 458 c.c. poichè in tal modo si sta rinunziando a diritti relativi ad una successione (quella della madre) non ancora aperta.

La Cassazione conclude, quindi, affermando che “è nulla per contrasto con il divieto di cui all’art. 458 cod. civ. la transazione con la quale uno dei futuri eredi, quando è ancora in vita la de cuius, rinunci a vantare i diritti, anche quale legittimario, sulla futura successione, ivi incluso il diritto a fare accertare la natura simulata degli atti di disposizione posti in essere dalla de cuius in quanto idonei a dissimulare
donazione”

Il coniuge separato senza addebito, in caso di decesso dell’altro coniuge, può godere del diritto di abitazione sulla casa familiare e di uso sui mobili che la corredano che la legge riserva ai sensi dell’art. 540 c.c.?

DIRITTI DI ABITAZIONE SULLA CASA FAMILIARE IN CASO DI CONIUGE SUPERSTITE SEPARATO

di Barbara Bosso de Cardona -Abilitata alla professione di Notaio

L’art. 540, 2° comma, c.c. prevede che,  in caso di decesso di un coniuge, al coniuge superstite spetta, oltre alla quota successoria di legittima, anche il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano.

Si tratta di un legato “ex lege”, che viene acquisito automaticamente dal coniuge al momento dell’apertura della successione, anche nel caso in cui questi rinunci all’eredità.

La legge prevede che tali diritti spettano al coniuge superstite se la casa familiare è di proprietà esclusiva del coniuge defunto o in comunione tra questi ed il coniuge superstite, mentre non spettano nel caso, ad esempio, in cui la casa familiare era condotta in locazione o comodato oppure era di proprietà del defunto e di un soggetto terzo diverso dal coniuge superstite.

Si è discusso in dottrina e giurisprudenza se i diritti in oggetto spettano anche al coniuge separato senza addebito.

La questione nasce perché il coniuge separato senza addebito ha per legge gli stessi diritti successori del coniuge non separato però, a seguito della separazione, verrebbe meno il presupposto per la nascita dei diritti ex art. 540 c.c in quanto mancherebbe l’esistenza di una “casa adibita a residenza familiare”.

Un primo orientamento, sostenuto da alcune pronunce della Corte di Cassazione (n. 13407/2014 e n. 15277/2019), ritiene che per casa familiare si deve intendere esclusivamente la casa ove, al momento dell’apertura della successione, vi sia una “residenza comune” tra i coniugi, cosa che non è possibile in caso di separazione (che fa venire meno la coabitazione).

Secondo tale orientamento, quindi, al coniuge separato (anche senza addebito) non spettano i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano.

Recentemente, la Cassazione (con sentenza n. 22566 del 26.7.2023) ha, invece, affermato che il presupposto richiesto dalla legge per l’attribuzione al coniuge superstite dei diritti ex art. 540 c.c. è che, al momento dell’apertura della successione, esista una casa che continui ad avere un collegamento con l’originaria destinazione familiare, anche se in essa non vi abitano più insieme i coniugi.

Secondo quest’ultimo orientamento, dunque, “i diritti di abitazione e uso, accordati al coniuge superstite dall’art. 540, comma 2, c.c. spettano anche al coniuge separato senza addebito, eccettuato il caso in cui, dopo la separazione, la casa sia stata lasciata da entrambi i coniugi o abbia comunque perduto ogni collegamento, anche solo parziale o potenziale, con l’originaria destinazione familiare”.

E’ valida la scrittura tra fratelli con cui questi stabiliscono il versamento di conguagli per riequilibrare il valore dei beni loro donati dai genitori?

CONGUAGLI PEREQUATIVI DI DONAZIONE E DIVIETO DEI PATTI SUCCESSORI

di Barbara Bosso de Cardona -Abilitata alla professione di Notaio

Tra i principi fondamentali del diritto successorio il nostro ordinamento riconosce il divieto dei “patti successori”.

Si tratta di accordi con cui si dispone della propria successione (detti patti successori istitutivi) oppure si dispone (patti successori dispositivi) o si rinunzia (patti successori rinunziativi) ai diritti che possono spettare su una successione non ancora aperta.

L’art. 458 c.c. prevede espressamente la nullità di tali patti in quanto il legislatore ha inteso tutelare due principi fondamentali, sia di ordine giuridico che morale.

In particolare, la ratio è quella di garantire il principio di libertà testamentaria per il quale il testatore è sempre libero di revocare il proprio testamento.

Pertanto, l’unica fonte di delazione ereditaria è il testamento o, in assenza di questo, la legge mentre mai può costituire fonte della delazione un accordo privato relativo alla propria o altrui successione.

Ciò assolve anche alla funzione morale di evitare di incentivare il desiderio di morte altrui per ottenere vantaggi economici.

La giurisprudenza, in numerose occasioni, ha avuto modo di pronunciarsi sul confine, spesso labile, tra i patti successori vietati e l’autonomia contrattuale delle parti, ammessa ai sensi dell’art. 1322 c.c.

Recentemente, la Cassazione è tornata a pronunciarsi in tema di patti successori con due pronunce ravvicinate.

Con la sentenza n. 34858 del 13.12.2023 la Suprema Corte ha chiarito che per stabilire se una determinata pattuizione ricada sotto la comminatoria di nullità di cui all’art. 458 c.c. occorre accertare:

1) se il vincolo giuridico con essa creato abbia avuto la specifica finalità di costituire, modificare, trasmettere o estinguere diritti relativi ad una successione non ancora aperta;

2) se la cosa o i diritti formanti oggetto della convenzione siano stati considerati dai contraenti come entità della futura successione o debbano comunque essere compresi nella stessa;

3) se il promittente abbia inteso provvedere in tutto o in parte della propria successione, privandosi, così dello jus poenitendi;

4) se l’acquirente abbia contrattato o stipulato come avente diritto alla successione stessa;

5) se il convenuto trasferimento, dal promittente al promissario, debba aver luogo mortis causa, ossia a titolo di eredità o di legato.

A distanza di pochi giorni la Cassazione ha affrontato, con la sentenza n. 722 del 9.01.2024, una particolare fattispecie in tema di patti successori.

Il caso sottoposto alla Corte riguardava dei fratelli che avevano ricevuto in vita per donazione dai genitori dei beni e con separata scrittura avevano convenuto l’obbligo a carico di alcuni di essi di versare agli altri la differenza di valore tra i beni donati, al fine di riequilibrare le disuguaglianze tra i valori.

Convenuto in giudizio per l’adempimento di quanto obbligatosi con la suddetta scrittura, il fratello debitore aveva eccepito la nullità della scrittura per violazione del divieto dei patti successori.

Secondo la tesi assunta, le pattuizioni contenute nella scrittura sarebbero state dirette ad operare un riequilibrio tra le attribuzioni patrimoniali dei fratelli e, con tale riequilibrio, essi avrebbero mirato ad operare una ripartizione anticipata delle quote ereditarie tra i futuri aventi diritto alla successione.

Pertanto, l’accordo sarebbe nullo ai sensi dell’art. 458 c.c.

La Cassazione con la sentenza n. 722/2024 ha, però, chiarito che “l’atto mortis causa, rilevante gli effetti di cui all’art. 458 c.c., è esclusivamente quello nel quale la morte incide non già sul profilo effettuale (ben potendo il decesso di uno dei contraenti fungere da termine o da condizione), ma sul piano causale, essendo diretto a disciplinare rapporti e situazioni che vengono a formarsi in via originaria con la morte del soggetto o che dalla sua morte traggono comunque una loro autonoma qualificazione, sicché la morte deve incidere sia sull’oggetto della disposizione sia sul soggetto che ne beneficia: in relazione al primo profilo l’attribuzione deve concernere l’id quod superest, ed in relazione al secondo deve beneficiare un soggetto solo in quanto reputato ancora esistente al momento dell’apertura della successione”

Pertanto, secondo la Suprema Corte, in assenza dei suddetti presupposti si è al di fuori della fattispecie dei patti successori, vietati dal nostro ordinamento per cui, secondo la recente sentenza della Cassazione, “l’assunzione tra fratelli dell’obbligo di conguaglio per la differenza di valore dei beni loro donati in vita dal genitore non viola il divieto di patti successori, non concernendo i diritti spettanti sulla futura successione mortis causa del genitore”.

Concludendo, se le attribuzioni contemplate nella scrittura mirano esclusivamente ad operare un riequilibrio delle posizioni patrimoniali unicamente in considerazione delle donazioni già conseguite da alcuni dei figli, e senza in alcun modo inserire funzionalmente tale riequilibrio nell’ambito della futura successione di ciascuno dei genitori, non vi è alcuna violazione del divieto dei patti successori e, pertanto, l’accordo è valido.

E’ valido un testamento olografo nel quale la data è incompleta o manca del tutto o viene apposta da un terzo?

TESTAMENTO OLOGRAFO ED APPOSIZIONE DELLA DATA DA PARTE DI UN TERZO

Autore: dott.ssa Barbara Bosso de Cardona – abilitata alla professione di Notaio

A norma dell’art. 602 c.c. un testamento olografo per essere valido deve essere interamente scritto di pugno dal testatore e da questi datato e sottoscritto.

La data (che deve contenere l’indicazione del giorno, mese ed anno in cui il testamento viene redatto) serve a fotografare la situazione esistente al momento della redazione del testamento.

E ciò rileva sia per il caso in cui vi siano più testamenti redatti dalla medesima persona (per cui se i vari testamenti sono tra loro incompatibili prevale il testamento redatto per ultimo) sia quando si deve valutare la sussistenza della capacità di intendere e di volere del testatore al momento della redazione del testamento.

Può accadere, però, che in un testamento olografo si commettano errori, omissioni o incompletezze nell’apposizione della data e sul punto la giurisprudenza ha avuto occasioni di pronunciarsi.

Nel caso in cui il testatore abbia datato di suo pugno il testamento ma per errore materiale (dovuto ad ignoranza, distrazione o altra causa) ha inserito una data impossibile o errata (es. 30 febbraio 2023 oppure 1-112-2023), la Cassazione (con sentenza n. 37228/2021) ha stabilito che la data può essere rettificata dal giudice ma solo “avvalendosi di altri elementi intrinseci della scheda testamentaria così da rispettare il requisito essenziale dell’autografia dell’atto”.

Ma cosa accade se nel testamento olografo manchi del tutto la data o questa è incompleta (ad esempio è inserito solo l’anno)?

Ai sensi del secondo comma dell’art. 606 c.c., trattandosi di un difetto di forma del testamento diverso dalle ipotesi di cui al primo comma del medesimo articolo 606 c.c. (che si riferisce alla mancanza di autografia o della sottoscrizione), la mancanza o incompletezza della data rende il testamento olografo annullabile con azione giudiziale che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse nei cinque anni dalla data in cui le disposizioni testamentarie hanno avuto esecuzione.

Se, però, la data del testamento non è omessa o incompleta ma è stata apposta da un terzo, le cose cambiano.

La Cassazione, già con la sentenza n. 27414/2018, ha affermato che se un terzo interviene durante la redazione del testamento olografo scrivendo una qualunque parola, e quindi anche se appone la data, in questo caso si è fuori dall’ipotesi di omissione della data (che, come detto, dà luogo ad annullabilità del testamento) ma si configura la fattispecie di mancanza di autografia del testamento olografo che dà luogo, invece, a nullità del testamento ai sensi del primo comma dell’art. 606 c.c.

Il medesimo principio è stato recentemente ripreso dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 30237 del 31 ottobre 2023 con cui ha affermato che:  

“Nel testamento olografo l’omessa o incompleta indicazione della data ne comporta l’annullabilità; l’apposizione di questa ad opera di terzi, invece, se effettuata durante il confezionamento del documento, lo rende nullo perché, in tal caso, viene meno l’autografia stessa dell’atto, senza che rilevi l’importanza dell’alterazione. Peraltro, l’intervento del terzo, se avvenuto in epoca successiva alla redazione, non impedisce al negozio mortis causa di conservare il suo valore tutte le volte in cui sia comunque possibile accertare la originaria e genuina volontà del de cuius. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto che la data apposta da un terzo integrasse una nullità di carattere formale, suscettibile di conferma ex art. 590 c.c., tenuto conto che l’erede legittimo aveva dato volontaria e consapevole esecuzione al testamento, consegnando ai legatari i beni immobili che la testatrice gli aveva lasciato)”.

ACCETTAZIONE DI EREDITA’ CON BENEFICIO D’INVENTARIO A FAVORE DI MINORE

COSA ACCADE IN CASO DI OMESSA REDAZIONE DELL’INVENTARIO?

LA PAROLA SPETTA ORA ALLE SEZIONI UNITE DELLA CORTE DI CASSAZIONE.

Autore: dott.ssa Barbara Bosso de Cardona – abilitata alla professione di Notaio

Con l’ordinanza interlocutoria n. 34852 del 13 dicembre 2023  la Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la risoluzione di un contrasto giurisprudenziale in tema di accettazione con beneficio d’inventario in favore di minori.

Il caso sottoposto alla Suprema Corte riguardava una madre che, per conto dei figli minori, aveva accettato l’eredità con beneficio d’inventario senza redigere, però, l’inventario. Giunti alla maggiore età i figli avevano rinunciato all’eredità entro il termine annuale previsto dalla legge e, sulla base di ciò, si erano opposti alla richiesta di pagamento da parte della Banca creditrice del padre defunto per il pagamento delle rate del mutuo da lui acceso.

Il principale effetto dell’accettazione con beneficio d’inventario è quello di tenere distinto il patrimonio dell’erede da quello del defunto per cui l’erede risponde dei debiti solo con il patrimonio ereditario e non anche con il proprio patrimonio.

Per ottenere ciò la legge disciplina dettagliatamente l’iter da seguire che prevede l’accettazione con beneficio d’inventario e la redazione dell’inventario; quest’ultimo adempimento può anche precedere la dichiarazione di accettazione ma, comunque, entrambe le formalità vanno osservate nei termini precisi indicati dalla legge, che variano dalla circostanza se il chiamato è nel possesso dei beni ereditari o non lo è.

I minori, e gli incapaci in generale, devono accettare l’eredità, ai sensi dell’art. 471 c.c., necessariamente con il beneficio d’inventario; in considerazione del fatto che la procedura beneficiata deve essere osservata per loro conto dai genitori o rappresentanti legali, l’art. 489 c.c. prevede che gli incapaci non si intendono decaduti dal beneficio d’inventario se non al compimento di  un anno dalla maggiore età o dal cessare dello stato di incapacità quando loro stessi non si siano conformati alle norme previste in tema di accettazione beneficiata.

Ma cosa succede quando il genitore del minore ha accettato con beneficio d’inventario l’eredità devoluta al figlio ma non ha compiuto l’inventario? Una volta divenuto maggiorenne, il figlio può solo perfezionare la procedura, e quindi redigere l’inventario ed evitare la confusione del suo patrimonio da quello del de cuius, oppure può anche rinunciare all’eredità?

Nel caso recentemente sottoposto alla Corte di Cassazione i ricorrenti hanno sostenuto la seconda delle tesi sopra esposte e quindi, avendo rinunciato all’eredità del padre una volta divenuti maggiorenni, hanno ritenuto di non dover rispondere in alcun modo dei debiti del defunto.

La Seconda Sezione della Corte di Cassazione, pur segnalando che il dato letterale della norma sembrerebbe confermare la tesi per la quale la dichiarazione di accettazione ex art 484 c.c., una volta effettuata, può portare solo all’accettazione pura e semplice o a quella beneficiata, riconosce che esistono all’interno della stessa Corte anche orientamenti diversi.

In particolare, la dichiarazione di accettazione e l’inventario sarebbero entrambi elementi costitutivi della procedura beneficiata per cui in mancanza di uno solo di essi la fattispecie a formazione progressiva non si perfeziona.

Pertanto, la sola dichiarazione di accettazione fatta dal genitore servirebbe esclusivamente a far mantenere al minore la sua posizione di chiamato all’eredità per cui quando questi raggiungerà la maggiore età potrà non solo far redigere l’inventario e perfezionare l’accettazione beneficiata ma anche rinunciare all’eredità.

Esistendo detti contrasti, la Seconda Sezione Civile ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente affinché valuti l’opportunità di rimettere la causa alle Sezioni Unite per “chiarire se l’inventario sia elemento perfezionativo di una fattispecie a formazione progressiva in mancanza del quale vengono meno anche gli effetti della dichiarazione di accettazione ex art. 484 c.c., per cui l’accettante resta mero chiamato con facoltà di rinuncia, o se esso costituisca adempimento successivo la cui mancanza non osta all’acquisto della qualità di erede in virtù dell’originaria dichiarazione di accettazione, senza possibilità di successiva rinuncia, fatta salva solo la responsabilità ultra o intra vires hereditatis”.

Attendiamo quindi fiduciosi la pronuncia delle Sezioni Unite per avere una interpretazione certa ed univoca della norma ponendo fine agli orientamenti diversi e contrasti finora rilevati.

Quando è opportuno rinunziare al legato in sostituzione di legittima e la forma necessaria?

IL LEGATO IN SOSTITUZIONE DI LEGITTIMA: FORMA DELLA RINUNCIA

di Dott.ssa Barbara Bosso di Cardona – abilitata alla professione di Notaio

Con il legato in sostituzione di legittima il testatore attribuisce ad un legittimario determinati beni in “sostituzione” di quanto a questi spettante a titolo di legittima sul patrimonio ereditario.

Ai sensi dell’art. 551 c.c., al legittimario è attribuita la facoltà di scegliere se conseguire il legato (perdendo il diritto a chiedere il supplemento nel caso in cui il valore del legato sia inferiore alla quota di riserva prevista dalla legge) oppure se rinunziare al legato e chiedere la legittima.

Questa disposizione deve essere coordinata con quanto previsto dall’art. 649 c.c. che prevede che il legato si acquista automaticamente, senza quindi bisogno di accettazione, fatta salva la facoltà di rinunciarvi.

Secondo una parte della dottrina si tratta di un rifiuto impeditivo cioè la rinuncia del legatario impedisce che si perfezioni la fattispecie a formazione progressiva del conseguimento del legato. Secondo altra parte della dottrina, invece, siamo in presenza di una vera e propria rinuncia abdicativa, che elimina l’acquisto che si è verificato automaticamente per legge.

La legge non prevede espressamente in quale forma debba avvenire la rinuncia al legato ma si ritiene generalmente che questa possa avvenire anche per fatti concludenti, cioè in maniera tacita ovvero con comportamenti incompatibili con la volontà di rinunciare al legato.

Quando, però, il legato ha ad oggetto diritti immobiliari la rinunzia deve farsi per iscritto a pena di nullità ai sensi dell’art. 1350 n. 5) c.c. in quanto, come segnalato anche dalla giurisprudenza (v. Cass. n. 8878/2000), la rinuncia si risolve in un atto di dismissione della proprietà su beni già acquisiti al patrimonio del rinunciante.

Il principio innanzi esposto (libertà della forma della rinuncia al legato, salvo abbia ad oggetto diritti immobiliari) non viene derogato nel caso di legato in sostituzione di legittima.

La circostanza che al legatario sia attribuita la facoltà di scegliere tra legato e legittima non significa, infatti, che il legato tacitativo non si acquista automaticamente ex art 649 c.c., al pari di qualunque altro legato.

Secondo la Cassazione a Sezioni Unite n. 7098/2011 il legato in sostituzione di legittima si acquista automaticamente ma è sottoposto alla condizione risolutiva della scelta, operata dal legittimario-legatario, di rinunciare al legato e conseguire la legittima. Anche in tale caso, dunque, la rinuncia, se ha ad oggetto beni immobili, deve essere effettuata in forma scritta per l’esigenza di certezza dei trasferimenti immobiliari.

Il medesimo principio è stato ripreso recentemente dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza del 2 novembre 2023 n. 30384 con cui ha stabilito che il legittimario in favore del quale il testatore abbia disposto un legato in sostituzione di legittima avente ad oggetto beni immobili, se vuole conseguire la legittima, deve rinunciare al legato, a pena di nullità, con la forma scritta ex art 1350 n. 5) c.c.

L’azione di riduzione intentata da un chiamato all’eredità rappresenta a tutti gli effetti una forma di accettazione tacita dell’eredità

di dott. Barbara Bosso de Cardona – abilitata alla professione di Notaio

L’ESERCIZIO DELL’AZIONE DI RIDUZIONE: RIFLESSI SULL’ACCETTAZIONE DELL’EREDITA’

L’azione di riduzione costituisce uno strumento di tutela messo a disposizione dall’ordinamento al legittimario che sia stato leso nella sua quota di legittima.

L’art. 564 c.c., nel disciplinare le condizioni per l’esercizio dell’azione di riduzione, richiede al legittimario che intenda agire in riduzione di accettare l’eredità con beneficio d’inventario.

Ciò, però, è richiesto solo nel caso in cui l’azione di riduzione venga esercitata verso un soggetto terzo, non coerede, che abbia beneficiato di donazioni o legati da parte del de cuius lesivi della legittima altrui.

Non è richiesta, invece, l’accettazione beneficiata nel caso in cui si agisca contro un soggetto chiamato come coerede, e ciò in quanto la norma è posta a tutela del terzo estraneo che, trovandosi convenuto in giudizio, in assenza di un inventario d’eredità avrebbe più difficoltà, rispetto ad un soggetto coerede, di accertare la consistenza dell’asse ereditario e, quindi, di poter difendere in giudizio la propria posizione.

L’accettazione di eredità può essere, però, oltre che espressa (pura e semplice o con beneficio d’inventario), anche tacita, cioè effettuata tramite comportamenti concludenti che implicano necessariamente la volontà di accettare l’eredità.

La giurisprudenza ha in diverse occasioni precisato quali sono i comportamenti del chiamato all’eredità che costituiscono accettazione tacita e, tra questi, vi è l’esercizio dell’azione di riduzione.

Recentemente la Cassazione è tornata sul tema e con ordinanza del 27 ottobre 2023 n. 29891 ha affermato che “L’accettazione tacita dell’eredità può desumersi dall’esplicazione di un’attività personale del chiamato incompatibile con la volontà di rinunciarvi, ovvero da un comportamento tale da presupporre la volontà di accettare l’eredità secondo una valutazione obiettiva condotta alla stregua del comune modo di agire di una persona normale, così che essa è implicita nell’esperimento, da parte del chiamato, di azioni giudiziarie, che – perché intese alla rivendica o alla difesa della proprietà o al risarcimento dei danni per la mancata disponibilità di beni ereditari – non rientrino negli atti conservativi e di gestione dei beni ereditari consentiti dall’art. 460 c.c., trattandosi di azioni che travalicano il semplice mantenimento dello stato di fatto quale esistente al momento dell’apertura della successione, e che il chiamato non avrebbe diritto di proporle così che, proponendole, dimostra di avere accettato la qualità di erede.”

Pertanto, l’esercizio dell’azione di riduzione costituisce accettazione tacita dell’eredità e preclude la possibilità di accettare successivamente con beneficio d’inventario “in quanto l’accettazione beneficiata non è giuridicamente concepibile dopo che l’eredità sia stata già accettata senza beneficio, non potendosi invocare il differimento dell’acquisto della qualità di erede al passaggio in giudicato della sentenza di accoglimento della riduzione, posto che tale regola opera solo per il legittimario totalmente pretermesso”.

Come calcolare correttamente il valore dei beni dovuti al legittimario pretermesso a seguito del favorevole esito della sua azione di riduzione?

una recente sentenza della Corte di Cassazione – n. 31125 del 8 Novembre u.s. – ha sciolto le incertezze sulla procedura corretta da seguire per determinare il valore dei beni caduti in successione nel caso di favorevole pronuncia di accoglimento dell’azione di riduzione esperita da parte di un legittimario pretermesso.

autore: Andreana Hedges

Gli articoli 553 e seguenti del codice civile delineano le regole per l’esercizio del diritto di reintegra del legittimario pretermesso. La legittima può essere lesa, infatti, sia da donazioni in vita che da atti testamentari come nel caso esaminato dalla Corte.

La Cassazione ha sottolineato, nella vicenda giudiziaria presa in esame, che il legittimario pretermesso non è automaticamente erede all’apertura della successione testamentaria, ma lo diventa solo con l’esercizio dell’azione di riduzione. Questo principio, già presente in pronunce precedenti, indica che i legittimari pretermessi partecipano alla comunione ereditaria solo attraverso l’esercizio dell’azione di riduzione.

La sentenza evidenzia chiaramente la distinzione tra riduzione e divisione ed indica come vanno stimati il valore dei beni in entrambe le fattispecie:

  • per la riduzione, si valuta l’asse ereditario al momento dell’apertura della successione,
  • per la divisione, invece, si considera il valore venale al momento della divisione.

Con l’accoglimento dell’azione di riduzione da parte del legittimario pretermesso si instaura una comunione tra l’erede istituito e il legittimario, con regole ordinarie per lo scioglimento e attualizzazione del valore al momento effettivo dello scioglimento.

La Cassazione civile ha accolto questo motivo, affermando che il legittimario pretermesso diventa erede solo con l’esito positivo dell’azione di riduzione e non al momento dell’apertura della successione.

Di conseguenza, cassava le sentenze impugnate, stabilendo un principio di diritto e rinviando la causa al giudice d’appello in una composizione diversa.

La sentenza conclude affermando che l’errore della Corte di merito è stato nel non applicare le regole della divisione, presumendo erroneamente l’assenza di una comunione estesa a tutti i beni relitti.

Questo principio, secondo la Cassazione, non entra in contrasto con la distinzione tra azioni di riduzione e divisione, poiché nel caso presente, la comunione non era già nata all’apertura della successione.

Cogliamo l’occasione per informare i lettori che Mercoledì 21 Febbraio 2024, nell’ambito del corso di alta formazione Masterclass Successioni 2024 – XI° edizione – si terrà un incontro di studio approfondito su donazioni lesive dei diritti dei legittimari ed azione di riduzione. E’ possibile vedere il programma di tutto il corso sul sito: https://www.geonetwork.it/formazione/masterclass_successioni_2024/

Il coacervo nelle successioni: l’Agenzia delle Entrate ne riconosce l’abrogazione ed elimina il quadro ES nel modello di dichiarazione di successione

finalmente l’Agenzia delle entrate si è allineata alla più recente giurisprudenza consolidata in materia riconoscendo l’abrogazione implicita dell’obbligo di indicare le donazioni effettuate in vita dal de cuius ad eredi e legatari nella dichiarazione di successione.

Dott.ssa Barbara Bosso de Cardona – abilitata alla professione di Notaio

Con il termine coacervo successorio si intende l’operazione con la quale al valore dell’asse ereditario lasciato dal de cuius al momento dell’apertura della successione (denominato relictum) viene aggiunto fittiziamente il valore del donatum, ossia delle donazioni effettuate in vita dal defunto.

Tale operazione di calcolo è formalmente prevista dall’art. 8, comma 4 del TUS (D.lgs 346/1990), il quale, però, nonostante la riforma che ha ristrutturato l’impianto dell’imposta di successione e donazione, non è stato mai formalmente abrogato.

Ciò ha dato luogo a dei contrasti tra la giurisprudenza, da un lato, e la prassi applicativa degli Uffici dell’Amministrazione Finanziaria, dall’altro, sulla vigenza o meno dell’operatività del coacervo anche dopo la riforma del 2006.

Secondo la precedente normativa, l’imposta di successione e donazione era calcolata secondo un sistema di aliquote progressive per scaglioni per cui, al fine di determinare correttamente l’aliquota applicabile, bisognava considerare anche il valore del donatum, ai sensi dell’art. 8 del TUS.

Il decreto legge 262/2006 ha ripristinato l’imposta di successione e donazione (che era stata soppressa nel 2001) per cui dal 29 novembre  2006 è “ritornata in vita” l’imposta di successione e donazione, nel nuovo impianto impositivo stabilito dalla legge 342/2000 che ha sostituito all’aliquota progressiva per scaglioni il nuovo sistema con aliquote determinate sulla base dei rapporti di parentela e delle franchigie previste dalla legge.

Nonostante la nuova struttura, l’art. 8 del TUS non è stato abrogato e ciò ha dato luogo ai predetti contrasti interpretativi.

Secondo l’orientamento espresso più volte anche dalla Corte di Cassazione, con la riforma dell’imposta di successione e donazione ed il conseguente superamento del sistema di tassazione con aliquote progressive per scaglioni è venuto meno anche l’istituto del coacervo, anche se formalmente il legislatore ha “dimenticato” di abrogare l’art. 8 del TUS che lo prevedeva.

Secondo, invece, l’Agenzia delle Entrate, l’istituto del coacervo è rimasto in vita anche con il nuovo sistema impositivo, in quanto la riunione fittizia è comunque diretta a stabilire l’eventuale superamento delle franchigie previste dalla nuova normativa, per cui l’Ufficio ha sempre continuato a richiedere ed applicare ai fini successori il valore delle donazioni effettuate in vita dal de cuius.

Solo con la recente Circolare n. 29/E del 19 ottobre 2023 l’Agenzia delle Entrate ha recepito l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale ed ha affermato che:

“Ai soli fini dell’imposta di successione, l’istituto del coacervo “successorio” deve ritenersi non più attuale, con la conseguenza che lo stesso non può essere applicato né per determinare le aliquote, né ai fini del calcolo delle franchigie. Inoltre, con riferimento al coacervo “donativo”, devono intendersi superati i chiarimenti resi, al riguardo, dalla citata circolare n. 3/E del 2008, paragrafo 4.2, nella parte in cui prevede che, ai fini della determinazione della franchigia, rilevano anche le donazioni effettuate nel periodo «compreso tra il 25 ottobre 2001 (…) e il 29 novembre 2006 (data di entrata in vigore del regime attuale) (…)» . Ne deriva che, ai soli fini dell’imposta di donazione, l’istituto del coacervo “donativo” continua a trovare applicazione, ma dallo stesso vanno escluse le donazioni poste in essere tra il 25 ottobre 2001 e il 28 novembre 2006, periodo in cui la disciplina relativa all’imposta sulle successioni e donazioni risultava abrogata.”

Conseguentemente, in data 8 Novembre 2023 è stato aggiornato il modello della dichiarazione di successione al nuovo orientamento con la pubblicazione da parte dell’Agenzia di un nuovo modello di dichiarazione di successione e domanda di voltura catastale.

In data 9 Novembre 2023, con la tempestività di cui è ben nota, il software DE.A.S. della Geo Network è stato aggiornato al nuovo Modello e le specifiche tecniche di competenza per permettere ad ogni utente di utilizzare immediatamente il nuovo modello per la compilazione e trasmissione delle pratiche.

L’esecutore testamentario e la vendita degli immobili: come si presenta la dichiarazione e chi paga le imposte?

Da sempre le posizioni di esecutore testamentario o curatore dell’eredità giacente sono controverse dal punto di vista delle modalità con cui sono tenuti a presentare la dichiarazione e pagare le relative imposte.

Più semplice era la situazione quando, con il modello cartaceo, si potevano ad esempio mettere già gli eredi calcolando correttamente le imposte, cosa che, in caso di curatore dell’eredità giacente, ma anche in caso di esecutore testamentario, con il nuovo modello non si può fare.

Tra le questioni più gettonate è la corretta soluzione fiscale del caso in cui venga nominato un esecutore testamentario con l’obbligo a suo carico di vendere gli immobili oggetto di successione e trasferire il ricavato ad alcuni eredi/legatari nominati.

In questo caso come presenta la successione l’esecutore? Inserisce gli immobili e vi paga le relative imposte o applica l’art.44 comma 3 del TUS, essendo la somma da tassare ancora non individuata in quanto il legato di credito finale è al momento sospeso in attesa della vendita, e quindi non inserisce nulla in successione?
La soluzione, fornita dall’Agenzia nella risposta ad interpello n. 471/2019 è, purtroppo, nel senso di sottoporre comunque a tassazione gli immobili. Se infatti è vero che la trascrizione della successione deve avvenire nei confronti dell’esecutore testamentario, quale possessore degli immobili in questione e che egli è annoverato tra coloro che sono tenuti a presentare la dichiarazione di successione, allora egli dovrà inserire gli immobili in successione, pagare le ipocatastali dovute ed, eventualmente, anche l’imposta di successione che verrà liquidata dall’ufficio.
Una volta effettuata la vendita l’esecutore testamentario (ammesso che ciò sia tecnicamente possibile come vedremo tra poco) o i legatari dovranno presentare una dichiarazione integrativa, indicando il ricavato della cessione e la relativa imposta di successione riliquidata, eventualmente procedendo al conguaglio. Non saranno invece ripetibili l’imposta ipotecaria e catastale.
Tutto chiaro, anche se piuttosto oneroso, direi.
Il problema è che il software di controllo dell’Agenzia delle Entrate, necessario step per validare il file che potrà poi essere autenticato e inviato all’Agenzia, non permette che l’esecutore testamentario sia anche erede o comunque imputi a se stesso i beni su cui poi liquidare le imposte (come invece richiesto sia ai sensi della normativa civilistica che gli imputa il possesso dei beni in attesa della vendita; sia ai sensi della normativa fiscale come si è visto nell’Interpello).

Le specifiche del software porevedono infatti che: Se codice carica del frontespizio = 5 (curatore dell’eredità giacente) o 6 (amministratore dell’eredità) o 7 (esecutore testamentario), il dichiarante non deve essere presente nel quadro EA

E allora come fare? L’unica soluzione che viene alla mente è indicare (in questo caso in cui i beni sono a lui attribuiti in attesa della vendita) l’esecutore testamentario come erede dichiarante e devolvere a lui i beni che saranno oggetto di vendita.

Dal punto di vista del calcolo delle imposte è una ricostruzione corretta ed è un sistema per superare l’empasse che non viene preventivamente bloccato in fase di controllo (il software dell’Agenzia non rileva infatti la presenza dell’esecutore); resta chiaro che è una soluzione imperfetta e che qualche Agenzia potrebbe contestarla. Certo, in tal caso, dovrebbe però anche fornire una soluzione alternativa.

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